Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    lettera17

    Pandemia, dal greco, “tutto il popolo”, che significa che riguarda tutto il popolo. Noi, adesso, nel 2020, siamo all’interno di una pandemia, di un problema che riguarda tutto, ormai, il popolo terrestre. Da inizio marzo, quasi tutti noi, abbiamo abbandonato forzatamente la nostra vita sociale per una persistente difficoltà comune, con una possibile soluzione condivisa per evitare il contagio. Il covid-19 è una malattia generata dal nuovo Coronavirus, dove “co” sta per Corona, “vi” per Virus, “d” per disease e 19 è l’anno in cui si è manifestata. Il coronavirus è un virus così piccolo che ha avuto la forza di bloccare le attività, le scuole, i lavoratori, gli eventi e l’intera Italia.
    Al “tempo” del coronavirus, con le scuole chiuse, il tempo non passa mai, o passa troppo veloce per le lunghe ore di sonno in più. Le lezioni online hanno cominciato lentamente ad entrare nelle nostre vite perché, anche se, la tecnologia è ormai all’avanguardia nel 2020, nessuno di noi (studenti e insegnanti) era preparato e pronto a questo tipo di didattica. Nonostante tutto anche questo ci tiene compagnia e diventa un evento importante da rispettare e da attendere con ansia perché ci unisce al mondo esterno e aiuta la nostra routine di vita quotidiana piatta e solitaria a prendere forma. Questo imprevisto non solo è un modo per imparare ad adattarsi alle cose, ma anche un modo per riuscire a creare la nostra normalità in un mondo e in un tempo in cui c’è un’emergenza in cui la nostra normalità viene alterata. Scopriamo che anche le cose più semplici come mettere in ordine la nostra stanza, raggruppare i nostri libri negli scaffali, aprire i quaderni, diventano non più doveri noiosi e privi di senso ma confortante normalità e ci aiutano a scoprire quali siano le nostre priorità. Più di tutto, a scoprire di cosa e di chi abbiamo bisogno nella nostra vita. Tante ore soli, in famiglia, a leggere libri e sfogliare infinite idee nella mente sulle persone e sulle cose fuori dalla nostra finestra, dove il mio viale deserto lascia spazio all’ambiente per respirare, finalmente, aria più pulita ed un mistico senso religioso (che non ho) mi dice che è quello il lato positivo della pandemia. Durante la notte, l’unica vita che c’è là fuori sono le auto della polizia, che fermano quelle poche macchine che passano rumorose sulla strada.
    Pensandoci bene, tra il 1918 e il 1920 l’influenza spagnola uccise decine di milioni di persone in tutto il mondo e, stando a wikipedia ha ucciso più della terribile peste nera del XIV secolo. Periodo differente, situazione simile ad oggi. L’abisso di differenza è che nel 1918 non c’erano le stesse risorse di oggi, la velocità nel trovare la cura o un vaccino, o anche solo la possibilità di stare in contatto con amici e parenti senza il rischio di ammalarsi.
    Personalmente mi auguro che presto tutto questo rimanga un solo triste ricordo, che spero resterà scritto nei libri di storia, come monito per i figli, i nipoti e nipoti dei nostri nipoti.
    Attendo con animo fiducioso di riabbracciare la mia nonna, il mio papà e i miei amici. Il contatto umano è vitale nonostante ora possa essere mortale.

    Bianca Cernuto, studentessa 4H, 23 marzo 2020