Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    Da una panchina del porto di Lampedusa

    Il mio lavoro è arduo, angosciante, comporta responsabilità enormi, ma è allo stesso tempo emozionante, travolgente e soddisfacente. Per qualche strano motivo mi permette anche di viaggiare, di esplorare e conoscere: ascolto storie incredibili e altre da brividi, e le vivo, anche se passivamente.
    Ricordo di quando stavo visitando Bruk, un giovane nigeriano emigrato con la madre e le sorelle. Erano rimasti solo lui e la maggiore, Hasana, che si prese cura di lui come una madre. Ammiravo il loro rapporto, davvero, quasi lo invidiavo. Ho il cuore facilmente suscettibile, lo ammetto, il che è un po' un controsenso alla mia professione, ma non importa. Visitai prima il ragazzo, in condizioni peggiori: riportava ferite inimmaginabili, era persino impossibile capire come potesse sopportarle, oltre a gravi ustioni avute in seguito ad una parziale esplosione della barca. La ragazza, invece, riportava ferite di minor rilievo e facilmente curabili. Per miracolo riuscii a salvarli entrambi, ne sono immensamente grato e, ancora oggi, continuo ad informarmi sulla loro condizione qui in Italia. Vedete, è questo il bello del mio lavoro: il “dopo”. La soddisfazione e la gratitudine sono secondari, i sorrisi sono la mia parte preferita. Altrettanto emozionante è la storia di Amalia, una bimba siriana, scappata dalle grinfie della sua famiglia. Pensate che, alla tenera età di undici anni, era stata promessa in sposa ad un amico dei genitori, ultracinquantenne. Mi ha raccontato tutto, ogni dettaglio della sua storia, ogni litigio con i parenti ed ogni sberla presa per le sue contraddizioni, ogni pianto ed ogni preghiera disperata. Non le ho curato soltanto le ferite esterne: mi ha dato la possibilità di entrare nella sua mente e nel suo cuore, chiedendomi aiuto nella forma più umile e sincera che io abbia mai visto. È riuscita a trovare una famiglia milanese che la ama come merita di essere amata e che la cresce e la accudisce come se fosse figlia loro. Si trova in Italia già da dieci anni ed oggi studia medicina in una prestigiosa università: voleva "ricambiare il favore”. Volete che vi racconti altro? Ho tenuto il meglio alla fine. Il 7 luglio 2016, qui a Lampedusa, arrivò una barca in condizioni pessime, da non credere. C’era stato un incendio e delle 236 persone stipate all’interno solo 47 riuscirono ad arrivare a riva, aggrappate a fatica ai resti dell’imbarcazione. Non riuscii a salvare tutti: gli altri morirono o non furono ritrovati. È difficile superare tutto questo, ci vuole davvero tanto coraggio e tanta forza, ma c’è comunque, in parte, un lieto fine. I soccorsi partirono immediatamente, fu una corsa contro il tempo. Chi lottava tra la vita e la morte, chi si aggrappava alla speranza e chi, invece, si affidava alla sorte. Erano emozioni condivise sia dai soccorritori che dai soccorsi, eravamo un tutt’uno. Ecco un altro aspetto che amo: riuscire a lavorare insieme, cooperare, creare una comunità. C’era anche qualcuno che, raggiunta la guarigione, si schierava dalla nostra parte, mettendosi a disposizione per aiutare là dove possibile. Aspettate, ora arriva la parte migliore. Non mi occupai di tutti personalmente, c’erano anche altri medici in servizio quella notte. Tra i pazienti che visitai, vi erano persone di tutte le età e di tutte le nazionalità: giovani nigeriani, anziani marocchini, uomini somali e donne senegalesi. Tra tutte, una mi colpì in particolare, oserei dire che mi stregò. Si chiamava Imani, era una donna di circa trentasei anni, nata e cresciuta in Costa d’Avorio e che, attualmente, è mia moglie. Avete capito bene. Sembravamo fatti l’uno per l’altra, c’era un’intesa incredibile e fu un colpo di fulmine. Ci sposammo pochi mesi dopo il suo arrivo, desiderosi di trascorrere le nostre vite insieme, l’uno accanto all’altra. Lei continuò ad aiutarmi allo studio medico per qualche tempo, fino a che non trovò lavoro in un centro sociale della città. Il destino è stato abbastanza generoso da farci incontrare, e ne sarò eternamente grato; tuttavia, a volte mi capita di pensare a cosa sarebbe successo se, invece di essere al porto, quella notte, fossi rimasto a casa, imprigionato dalle pareti, dietro una porta chiusa, cieco dei volti delle persone che morivano e sordo delle voci che urlavano aiuto. E mai avrei trovato lei. Eppure, ci sono persone che lo preferiscono, ritengono le proprie vite un bene superiore a quelle degli altri, per salvaguardare quel che hanno, e credono che “gli stranieri” siano qui soltanto per rubare lavoro, le mogli e il paese intero. "L'Italia agli italiani!" ho sentito dire al bar e se non sbaglio il bar era cinese.
    Io sono orgoglioso di chi sono, di cosa ho fatto e di cosa continuerò a fare: sono orgoglioso del contributo che do a questa comunità e ad oggi posso considerarmi realizzato perché il mio lavoro mi ha dato tutto quello di cui avevo bisogno: amore, riparo, gioia e soddisfazioni. Ad oggi posso fieramente dire di essere un medico di Lampedusa.

    (Giada Amoruso, 3D – Gaia Pisanello, 3M)