Mia madre è sul marciapiede con mio fratello minore. Si trova alla fermata del bus, sta salendo sul 34, l'unico che a quell'ora li avrebbe portati a casa. Quelli riservati a noi avevano smesso di passare da un pezzo. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla gracile donna della mia infanzia. Il volto è teso, rigidamente rivolto verso il basso, come se avesse il timore ad alzarlo. Contrasta la figuretta di mio fratello quattrenne, con in testa un cappellino vecchio, toppato qua e là, e un cappottino al quale non era rimasto che l'anima. È attivo e trotterellante. Ha il braccio teso e le dita della mano intracciate a quelle di mia madre, un passo dietro a lei, come in un posto in cui sembra andare malvolentieri. Chissà se quei momenti rivivono nella mente di mio fratello o sono passati come un sogno nella notte, come anche la nuvola più nera della tempesta. Mia madre non li ha mai dimenticati. Anni passati a lottare per diritti di cui non ha mai goduto, a combattere per un’ideale di uguaglianza. Anni di discriminazioni, di offese, di sguardi scrutatori e disgustati come quelli delle persone su quel bus. Facevano male, coltellate nello stomaco, mai completamente risarcite. Anche a me non è sfuggito niente, ricordo tutto. Ricordo le notti trascorse a piangere, a rigirarmi nel letto, animate da incubi che sembravano reali. Ricordo la tensione, la paura che si respirava in casa, pesante, tanto afosa da levarti il respiro. Arrivai a pensare di essere davvero diverso, di essere davvero sbagliato, a pensare di meritare tutto quel male. Non so dove fossi, al tempo della foto, forse nell’orto sul retro, forse affacciato alla finestra di camera ad aspettare il loro ritorno. Mio padre non era mai a casa, lasciava il tetto che era ancora buio e tornava che il cielo era scuro da un po’. Giornate intere passate in un campo, sotto il sole cocente dell'estate e la pioggia pungente dell'inverno, sfruttato e sottopagato. Lo faceva per darmi, per darci, un futuro. Rientrava piegato dalla fatica, tentava di non darlo a vedere, ma gli occhi dicevano quello che la bocca nascondeva. L'apartheid ci ha torturati, ci ha segnato, ma siamo riusciti ad uscirne, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico o epico, ma aspramente prosaico, questa foto con mio fratello che mi sembra addolcire il volto buio dei passeggeri e le inflessibili labbra di mia madre, mentre un fotografo ambulante, inquadrava nel pacifico occhio della sua macchina, un autentico documento dell’apartheid.
(Marcello Consigli, 5B)