Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    Da una trave dell’albero di ferro (si sentono bene le api elettriche)

    “Sai, una volta sono salito su un albero di ferro.” “Davvero?”. “Si”. “E?”
    “Si sentivano bene le api elettriche”
    Lui ogni tanto se ne usciva con queste frasi così dal nulla, però era per questo che mi piaceva tanto.
    “Come hai fatto a salirci?”. “Beh, mi sono svegliato stamattina che era anche una brutta mattinata, di quelle che preludono uno di quei giorni…hai presente?” Lui parlava in questo modo, per frasi apparentemente sconclusionate e senza un filo logico, e poi pretendeva che lo capissi.
    “Si ho capito, ma poi?”. “Poi però ho preso la bici…”. “A che ora?” “Alle 15:47”
    Ho annuito e gli ho fatto cenno di continuare
    “…e sono andato fino alla fine dei binari…”. “Non ci sono alberi di ferro alla fine dei binari.” “…e oltre, l’albero di ferro è vicino alla casa abbandonata.”. “In mezzo al prato desolato”. Stavo cominciando ad orientarmi, lui si illuminò e scosse energicamente la testa.
    “Si, a destra della Villa Archischiata” Quel nome glielo avevo dato io, perché lui guardandola aveva detto che era architettonicamente mischiata.
    “Intendi dire a sinistra”. “Non se la guardi frontalmente”. “Ah ok”. “Però non ti ho visto.” Aggiunsi. “Perché ero dall’altra parte”. “Ah.”
    Poi restammo in silenzio per un po’, nell’agio delle ultime frasi, cercando di recuperare i pensieri che fluttuavano leggeri intorno a noi.
    “Comunque le sentivo anch’io, le api elettriche.” Ero un po’ offesa, mi aveva sottovalutata nel raccontarmi la sua impresa. “Lo so, ma tu le sentivi da sotto l’albero di ferro.” La notavo bene, la punta di orgoglio nella sua voce, d’altronde lui non faceva nulla per nasconderla, anzi, si divertiva a vedermi permalosa.
    Sbuffai e rimasi in silenzio.
    “Potrei farlo anch’io, se volessi”. “Allora fallo”. Però io ci stavo troppo bene, distesa nell’erba alta, sotto il sole che filtrava dall’albero di ferro. E poi, li potevo sentire anche da lì, gli alveari che ronzavano pura corrente.
    “Dopo lo faccio”. “Non è vero.” Ma non era convinto neanche lui di quell’affermazione. “Si che è vero.” Feci un sorrisetto vittorioso. “Ma, non lo so, e comunque non posso dirtelo” Rispose lui, altrettanto sorridente. Cambiai argomento. “Sai, stavo pensando che questa cosa che fai-“. “-mi fa sembrare uno dei dannati danteschi”. Finì lui.
    “Già”. “Già…beh, non è del tutto sbagliato”. “A parte per il fatto che tu non sei dannato”. “Ma lo sono, non è vero?” lo sono perché lo sei tu
    Annuì.
    “Però dall’altra parte è diverso” dissi. “Non così tanto quanto pensi”. Questo, lui l’aveva detto con un tono di voce al contempo triste e ammonitore. Improvvisamente, lo senti davvero vicino.
    “Ah! Questa è bella” esclamai. Lui mi guardò attonito, muto, interrogativo. “Direi che il fatto che tu sei un ragazzo è già molto” spiegai, allora lui si tolse gli occhiali da sole e mi guardò dritto negli occhi, arcuando le sopracciglia, ridendo ironicamente sotto i baffi. “Ah, davvero? Andiamo, non ne sei sicura nemmeno tu” disse malizioso.
    Arrossii
    “Non parliamo di queste cose per favore”.“ Va bene” ridiventò subito serio. Passammo molti minuti in silenzio. 17 in tutto. Con gli occhi sentivo solo il flebile urlo dell’erba mossa del vento.
    “Come stanno?” chiesi, sottovoce. “Stanno bene”. “E tu non-“. “No.”. “Ah”. “Te l’ho detto che non era tanto diverso da qui”. “Però…” tentai ancora di protestare. “No, dall’altra parte non siamo come ci immagini tu, cioè si, ma in realtà la tua influenza cambia solo quelle cose a cui non importa niente a nessuno, se non a te. Ma quando lo fai, non te ne accorgi, non sei consapevole. Solo così funziona. Noi lo sappiamo, tu no.”
    “Tipo salire sull’albero di ferro?”. “Tipo”. “Però, questo io lo so” lui sorrise, di fronte alla mia ingenuità. “Perché questo è il tuo presente” ma non il mio, lui aveva il vizio di non finire le frasi quando non ce n’era bisogno.
    “È bello averti accanto” dissi io, genuinamente felice. Ma lui si incupì, “è bello, ma lo sai che è sbagliato, che tutta questa cosa non è altro che…” “Shhhh, ti prego, possiamo non parlarne? Godiamoci questo e basta.” Ma avevo gli occhi lucidi: ‘l’altra parte’ era una mia invenzione, un giochino di conforto per quando il dolore era insostenibile, era…come spiegarlo? Come quando da piccoli si creano degli amici immaginari, per stare in compagnia quando si è soli; ma i miei non erano più un innocuo gruppetto di elfi o fatine, questo era un intero universo e negli anni si era evoluto in qualcosa completamente autonomo e indipendente, da me. Però, non era niente di sbagliato. Non faceva nulla di male, l’altra parte. Semplicemente coesisteva. Semmai, mi aiutava, l’aveva sempre fatto in situazioni dove altri non avrebbero potuto fare nulla.
    Canticchiammo per un po’. “Questa giornata è proprio gialla” risi. “E’ proprio vero!” rise anche lui. Ed ero sollevata, che avessimo fatto pace.
    “Mi sa che lo faccio”. “Ok” già mi vedevo, alzarmi, arrampicarmi.
    “Okay vai” disse lui, facendomi cenno.
    “Okay, vado”
    Se fossi un personaggio di Murakami, direi che salendo sull’albero di ferro avevo capito tre cose:
    1)
    2)
    3)
    Ma io, salendo sull’albero di ferro non avevo capito proprio niente di particolarmente speciale. Spesso, in momenti come questi, mi scoccia ammettere che dentro di me non cambia nulla. Sarebbero attimi perfetti per avvenimenti “lifechanging”, dicono gli inglesi. Ma io no. Io, sono scesa dall’albero di ferro la stessa che ero salita. Però qualcosa era successo: ero salita e, infatti, lui se n’era andato via e sapevo che non l’avrei rivisto per molto tempo. Sorrisi malinconicamente e lo salutai, rivolta alla luna bianca. Sentivo le api elettriche ronzare.

    (Gaia Pisanello, 3M)