Una sera d’agosto ci scambiammo un brindisi sulla riva di Watamu in Africa, continuando a guardarci anche una volta esaurito l’alcool sul fondo dei nostri bicchieri. Iniziammo a parlare, frequentarci e decidemmo di andare a convivere la notte stessa. In una sera costruimmo un’intera vita insieme.
Eri diverso dagli altri là fuori e mi piacevi proprio per questo.
Eri la mia pioggia quando non riuscivo a coprirmi dal sole ed il mio sole quando l’acqua della pioggia mi consumava dentro. Sapevi farmi arrossire per i modi profondi in cui mi guardavi e con le labbra sussurravi parole anche con il tuo semplice sorridere. Avevi gli occhi fatti d’amore, del colore del deserto e ti prestavi a farmici navigare e perdere nella magia dei tuoi granelli di vita. Un giorno mi raccontasti addirittura delle tue immisurabili paure, di come continuamente tentassi di annullarle attraverso quel volto sereno che preparavi ogni mattina da mostrare alla gente, che in realtà non andava a costruire altro che una copia di colore più sbiadito rispetto ai sentimenti che albergavano il tuo intimo. Ho provato ad entrarci, a combattere con le tue ansie e le tue paure affinché prima o poi potessi ascoltare la tua voce gridare e cantare di sola felicità, ma non me l’hai permesso, non mi hai mai reso possibile fare del tuo caos di colori un dipinto. I tuoi sguardi continuavano a parlare senza che quelle parole mi attraversassero, perché io oramai per te non ero pioggia e non ero sole. Ero soltanto la tua tempesta. Hai preferito farti curare le ferite da bende infette, occhi sconosciuti e fatui sorrisi e del mio sapore non ne hai voluto più sapere. La mia vita è diventata come una torta in cui a mancare era un ingrediente fondamentale.
Eri la mia scorza d’arancia quando non riuscivo a sfuggire dall’amaro della vita ed il mio succo di limone quando mi serviva smorzare il sapore del giorno. Ora che non vivi la mia casa, io sono viva solo per metà.
(Giada Coveri, 3D)