Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    APATIA

    Una volta salivo, prendevo posto in bus e quel fiume in piena di persone che attraverso gesti mi raccontavano le loro storie mi trasmetteva un senso di familiarità. Mi sedevo sul seggiolino sinistro della coppia di sedili situati circa alla metà dell’autobus, sul lato sinistro ed estraevo le cuffie dallo zaino. Mettevo su una playlist scombinata che nel caos di più canzoni sapeva capirmi e mi immergevo nei colori di quelle mattinate. Non lo facevo per estraniarmi dal mondo, non l’ho mai fatto. La musica funzionava da sottofondo ed io ci trascrivevo le storie di tanti. Camminavo. Camminavo tra le espressioni dei volti stanchi delle sette di mattina intenti ad imprimere nelle loro menti date su date di eventi storici e mi scappava da ridere e poi mi scappava da sognare. Sogni brevi però, perché la realtà mi richiamava a sé forte come un uragano. Ed allora un’altra faccia, un’altra interrogazione scolastica ed un’altra dose di felicità si aggiungeva al serbatoio consumato della notte precedente, andandolo piano piano a riempire. Mi riedificavo così, pezzo per pezzo, nutrendomi di sorrisi. Poi ho iniziato a cercare la musica con altri intenti. Lei mi serviva per riempire uno spazio che non era più colmato da suoni naturali e per questo uno artificiale, prefabbricato e studiato a tavolino era idoneo a sopperire a questa mancanza, consapevole che il vuoto dentro di me stava trasformandosi in voragine. Ha iniziato a prendere posto nelle mattine in cui mi trovavo sola in casa e nelle notti in bianco in cui al bordo del letto scorgevo la luna rasserenare tutti gli animi tranne che il mio; si è fatta spazio tra i miei capelli arruffati scompigliandoli sino alle radici per scavalcare quel muro sottile e potente che la divideva dall’appropriarsi del luogo in cui tutte le mie preoccupazioni nascevano. Ci stava provando a restituirmi la felicità, ma in poco più di qualche minuto è tornato il buio. I momenti di felicità mi sono apparsi così fragili e sfuggevoli da convincermi che sarebbe stato uno sforzo immane soltanto tentare di raggiungerli. Non serviva la musica, non serviva più. Non importava riempire dove non rimaneva altro che vuoto perché avevo capito che nessun pezzo avrebbe mai potuto combaciare perfettamente con quello mancante: restava in ogni caso qualche angolo incompleto. La musica è ritornata un sottofondo sul quale però non vagavano altro che note lineari, rettilinee ed una confusione significativa è tornata a bagnarmi la mente che nonostante con la musica si abbeverasse, non funzionava più. La notte ha iniziato a costringermi in maniera diversa, senza più premere sulle mie tempie. Il dolore è sceso per la gola ed adesso occupa un altro luogo.
    La mattina sul bus non salgo più con il fervore di sempre. Sono alla ricerca del silenzio.
    (Giada Coveri, 3D)