Il Marco Polo si racconta

    Il Marco Polo si racconta

    Gocce

    Hey, tu. Senti che buono l’odore della pioggia. Mentre cade sull’asfalto nero come la notte, illuminato solo dalle insegne a neon e dai fanali delle macchine. Non mi è mai piaciuta la pioggia, però in quella notturna di primavera, c’è qualcosa di diverso. Me ne starei qui. Una volta ancora. Con la luce spenta e la finestra aperta. Come quando, stesa sul pavimento del bagno, ascoltavo cantautorato italiano a ripetizione.
    Però stavolta, ascolterei solo il rumore delle gocce.
    Vieni pioggia, cadete gocce sulle mie dita, ripulitele dal fumo urbano. Cadi pioggia, come pece sulla strada, qui sopra il mio inchiostro e schiarisci insieme all’aria anche i miei pensieri. Allora io scriverò meglio di così, alla luce della luna.
    Ecco quello che penso: penso che siamo come gocce di pioggia. Esse sono strane, perché quand’è che diventano ciò che sono? Quando cadono a terra. La vita di una goccia di pioggia, l’attesa, il viaggio, l’esistenza sotto forma di nuvola, si compie quando si frantuma sul suolo. E in quel momento non finisce di esistere, inizia a farlo. Lo stesso adagiarsi sul terreno è la completa compiutezza della sua esistenza. Non quando è in cielo, non quando sta cadendo, ma quando è qui per terra, con noi.
    La nostra esistenza invece non inizia quando "cadiamo" sulla terra. O meglio: il momento in cui veniamo al mondo, segna l'inizio della vita di un essere umano. Può sembrare contradditorio ma vi assicuro che non è la stessa cosa. Non lo è se consideriamo la parola "esistenza" come "realizzazione di sé stessi", nel senso della goccia di pioggia. Invece, se, come molti fanno, associassimo all'esistenza il semplice significato di "esserci sulla terra", allora le due frasi iniziali si equivarrebbero. In realtà noi nasciamo come una sorta di involucro vuoto che poi altri esseri umani riempiono con concetti umani, così impariamo, e con le esperienze che facciamo, cresciamo. Però non è abbastanza. La differenza tra le due definizioni è che nell'ultima, ci limitiamo a esserci sulla terra, pensando che questo significhi esistere, che questa sia la massima realizzazione auspicabile. Ma non è così perché in realtà alla nascita, quel filo che ci collegava a qualcosa, a qualcuno, ciò che ci rendeva completi, viene tagliato. E da quel momento in poi, quel filo continuerà a vagare invisibile nel vuoto per il resto della nostra vita, alla ricerca di qualcosa che ci renderà completi di nuovo. Se preferite una similitudine letteraria: come un visconte in cerca dell'altra sua metà. Così, quindi, il motivo per cui siamo sulla terra e ci è stata donata la vita è quello spazio vuoto dentro di noi. E lo scopo di essa è riempirlo, ritrovare la nostra metà. In fondo, sarebbe abbastanza egoistico da parte nostra limitarci a portare avanti il lavoro di qualcuno altro, considerando l'essere in vita, la sopravvivenza, il nostro maggior raggiungimento. Invece, forse, se vivessimo in un mondo dove l'elemento chiave più importante fosse la realizzazione di noi stessi, se potessimo vivere in una società dedita alla ricerca della compiutezza personale, la stessa compiutezza che in natura trovano le gocce di pioggia, probabilmente sarebbe diverso. Diverso in che modo non lo so. Alla fine, l'umanità ha fatto tanti esperimenti cercando di migliorare la parte esteriore della vita, l'estetica quasi, ma nessuno ha pensato che, forse, non c'è proprio niente da migliorare per essere felici. Solo trovare noi stessi e diventare ciò che siamo, ciò per cui ci siamo.

    (Gaia Pisanello, 3M)