Quante volte in una conversazione non ho preso parola per paura di espormi? È scontato, lo immaginerai. È durata per anni, sono trascorsi degli anni prima che potessi riuscire a esplicitare un gesto o a non rendere palese un sorriso forzato, che ancora oggi mi frega, che nasceva quando il mio discorso pieno di vita veniva ridotto ad un infimo pensiero, che pareva essere stato esternato già con l’utopia di essere imperfetto. Si annullava così, con un semplice sguardo fuori posto, tutto quello che avevo da dire, da dare, da dimostrare. Ci ho messo degli anni, anni interi prima di riuscire a comprendere realmente il valore della mia parola.
Ci è voluto tanto, ma è bastato poco. Giorno dopo giorno imparavo a coesistere con gli altri, senza mimetizzarmi tra la folla. Mi piaceva così tanto riuscire a godere della stessa dignità di chi si prestava ad ascoltare quel tanto che avevo da raccontare, di cui sempre veniva a sapere così poco, che l’ho considerato quasi un potere. Con l’allenamento l’avrei accresciuto, fino a raggiungere il momento in cui la mimesi che mi nascondeva avrebbe svolto il lavoro contrario: sarei stata invisibile come le parole che si pronunciano, ma avrei acquistato il giusto valore. Quel valore non era quantificabile in ricchezza né dimostrava la mia posizione, ma era qualcosa che mi rendeva felice, felice a tal punto da permettermi di tornare a parlare. Così come il gioco della parola porta sempre a storpiarne il suo significato autentico però, anche la voce che usciva meravigliata ed incerta dalla mia bocca veniva letta cogliendone il concetto sbagliato. L’ho capito l’altro giorno, mentre sull’erba di quel giardino assolato ci stavamo ascoltando a vicenda da un paio di ore: io da quel pomeriggio intenso di attenzione rivolta nei tuoi confronti, uscivo soddisfatta di aver catturato dai tuoi discorsi quello spirito di giustizia che ti contraddistingue, che nel bel mezzo di una società omologata si maschera. Invece tu, che delle mie riflessioni ricordi i dettagli, non riesci ad oggi a dimostrare che una parte di me ti appartiene. È per questo che nelle discussioni di gruppo ora non mi senti più parlare e quando mi chiedi come sto non ti racconto più del mio domani. Mi sono fermata al presente e non lo modifico più, ripeto le azioni di ogni giorno e lascio che siano comportamenti diversi a palesare il mio pensiero. Perché sprecare parole per chi non si fa attraversare non è quello che voglio, perché ascoltare senza sentire non significa prenderti cura di me.
(Giada Coveri, 3D)