In un impegno definito costante ed incessante, tipico della condizione studentesca di oggigiorno, che pare gravare e ridurre al minimo il tempo da dedicare alle attività attraverso le quali ci si sente di poter rinascere, mi domando se non manchi una ragione. Una ragione che sia una, valida e giustificabile, che ci spinge a lavorare duramente per “rispettare la consegna”. Cosa è ad oggi l’impegno? O per lo meno che mi venga spiegato a cosa è volto. Perché l’onere più gravoso per colui che segue un percorso scolastico viene identificato col “compito?” Perché quest’ultimo appare come un carico da trasportare e non un mezzo per arrivare? Quando poso il mio quaderno sulla scrivania e faccio per appuntare il lapis, il desiderio di piegare la pagina e scriverci una dedica smielata da consegnare a qualcuno per sfogare i miei sentimenti mi rapisce e di conseguenza sfrutto l’intero pomeriggio a svolgere l’assegnazione, consapevole, però, di star sottraendo del tempo alle mie passioni. Tutto questo frena molto i miei stimoli. Il livello di curiosità si abbassa e tutta la buona intenzione di aggiungere fibra al maglione che crescendo mi sto piano piano cucendo addosso si traduce in un punto croce venuto male. E lo spiraglio rimane lì, in guardia dall’arrivo di venti gelidi, ma comunque troppo poco resistente per far fronte a certi inverni. Così, ad esempio leggo Marino e approfondisco un po’ Galilei, arrivando ad osservare il metodo d’analisi di quest’ultimo applicato al suo “Osservare per capire”. Osservo la pagina e capisco. O almeno credo di averlo fatto.
Ciò che mi rimane include il suo esempio di spiegazione, quello per il quale all’interno di una barca immobile è possibile comprendere il principio fondamentale della relatività del moto: mi ricordo vagamente dell’esempio delle creature e quello del lancio dell’oggetto e penso di aver compreso, fino a quel punto. Perché l’analisi testuale mi porta a rispondere a domande premeditate ed io lo so fare, sono a cavallo. Però poi quando chiuso il libro e lo riposiziono al suo posto a me, di quel testo piano, cosa è rimasto? Niente. Niente perché poi il giorno dopo in classe riesco a ripeterlo, ma non saprei mettere in pratica l’insegnamento che non per forza è relativo alla teoria, ma l’insegnamento che di per sé è esplicato nel titolo: osservare per capire. A lezione, durante l’ora di spiegazione, pasticcio il foglio ma non ho capito cosa le sue parole mirano ad insegnare; attraverso Piazza Santissima Annunziata e non mi domando perché sia stata denominata così e ancora assaggio un boccone di quella tipica sfoglia napoletana e non ricerco il motivo per il quale essa sia finita lì, sul bancone di un bar di Firenze. Rimango in superficie, sorvolando interi tratti di costa perché abituata all’entroterra. Purtroppo, questo tipo di metodo, data la concezione di mancanza di tempo e spreco di questo, sono abituata ad applicarlo ripetutamente, precludendomi di arrivare a conoscere un sacco di cose. Perché la neve si scioglie a temperature superiori agli zero gradi centigradi e perché matematica ed aritmetica non si equivalgono; perché il salato si contrappone al dolce o semplicemente cosa significhi gustare sono discussioni che all’apparenza sembrano essere state affrontate in quale modo nel corso della vita e sono convinta che effettivamente saprei collocarle nel giusto contesto qualora mi venisse chiesto, ma magari (o senza magari) alla domanda postami in relazione all’identità del problema io non saprei che dare una spiegazione semplice, un po’ banale. Sono consapevole che niente potrà condurmi ad accrescere il mio livello di conoscenza se non la mia azione prima di riscoperta del mondo in cui vivo, che devo fare a cominciare dalla reinterpretazione di cosa significa fare scuola.
Giada Coveri, 4D