Sento un mostro dentro di me, che mi logora giorno dopo giorno. Mi conosce, mi osserva e si fa vivo nei momenti più inopportuni, quando l'unica cosa capace di salvarmi sarebbe la spensieratezza. Non conosco la sua forma, si manifesta nei modi più ambigui e bizzarri, nelle vesti di un respiro mancato o di un battito di cuore accelerato. Vorrei poterlo vedere invece di percepirlo soltanto, vorrei poterlo toccare invece di odiarlo soltanto, perché queste sono le uniche cose che mi permette di fare. Mi blocca anche la voce, alle volte soffoca parole che ho impiegato lassi di tempo enormi prima di convincermi a pronunciare. Mi distrugge, dentro e fuori. Lo percepisco sulla secca pelle delle mie mani, strofinate in continuazione, sulle rovinate unghie delle mie dita, sui passi velocizzati e sugli sguardi abbassati, sempre intenti a nascondersi.
Questo mostro ha un nome, che molti ancora faticano a pronunciare, forse per timore o per vergogna, e accomuna molte più persone di quante se ne possano immaginare. Inizia con la A, si, con la "a" maiuscola: non riesco a dirvi altro sul suo nome, sulla sua identità fin troppo nota. Come la felicità, anch'essa è fugace, rapida, arriva e scompare a suo piacimento, ma nella sua precarietà coesiste anche la distruttività. È letale, fin troppo sottovalutata dagli immuni e dagli indifferenti, ma estremamente temuta e compresa tra le sue vittime, che tentano con ogni cellula del proprio corpo, con ogni fibra della propria anima, di contrastare questo male terreno, che ci porterà tutti alla rovina.
Giada Amoruso, 4D