sembra di stare in un film.
metti una canzone.
cosa pensi?
è complicato.
sono tutti pensieri senza fine.
prova a dargli tu una fine.
non mi riesce.
il vento sposta l’erba.
ho i capelli in faccia.
è difficile interpretare le espressioni sul tuo viso.
è così strano.
quasi surreale.
siamo davvero in un film.
è tutto frutto della tua immaginazione.
io non sono reale.
perché sei qui?
non lo so.
tu perché sei qui?
perché sto bene.
anche io sto bene.
che pensi?
nulla.
ridi.
smetti.
ora sei serio?
sbalzi d’umore.
è bello avere un mondo proprio.
penso sia giusto.
no però è bello.
è vero.
stai in silenzio.
come faccio a capire?
non si può capire.
non guardarmi le mani.
sono belle le tue mani.
chi sei?
non lo so.
ad un certo punto dici qualcosa.
sei vento per dirmi questo?
no non voglio che pensi ciò.
ti alzi?
che vuoi fare?
scendiamo?
fa più freddo.
allora non scendiamo.
e dai.
non mi piace quella tua espressione.
perché?
non capisco cosa significhi.
sapessi quante cose non capisco io.
non mi piacciono le cose che non capisco
nemmeno a me.
ci sono tante cose che non si possono capire.
andiamo?
vuoi andare?
Andiamo.
Poggio la testa contro il finestrino e guardo il paesaggio.
Mi sistemo un'altra volta gli auricolari, per poi chiudere gli occhi e potermi concentrare solamente sulla mia musica.
Inseguo le note sullo spartito, lasciandomi trasportare dalla melodia.
Alla fine, raggiungo l'ultimo rigo e cado giù, in una distesa di bianco infinita.
Rimango sospesa a mezz'aria, mentre mi guardo intorno.
Vuoto.
Sento tutti i miei muscoli rilassarsi, la mia testa si svuota di tutti i miei pensieri.
Nessuna preoccupazione, nessun problema.
Nulla.
Galleggio nell'aria, leggera come una piuma.
All'improvviso sento una piccola folata di vento.
Mi circonda e inizia a cullarmi come si fa con un bambino appena nato. Poi inizia a cantare una ninna nanna.
È in quel momento che torno bambina: torno ad essere un piccolo fagottino avvolto in delle fasce, in braccio alla mamma.
È il momento che preferisco, dentro a questo mondo.
Il mio piccolo mondo.
Quel piccolo mondo nascosto all'interno della mia testa e che esce fuori quando voglio rilassarmi.
Quando voglio mollare per un poco tutte le mie preoccupazioni e le mie ansie.
Certe volte sento il bisogno di rimanerci per sempre, non svegliarmi mai per poter stare lì dentro.
Nessuno che mi disturba per i compiti, nessuno che mi domanda qualcosa, ci sono io e solo io.
Ding!
Eppure, tutte le volte quel suono arriva.
Quel campanello che suona e che mi strappa brutalmente dalle braccia del vento e mi riporta alla realtà.
"Ali, dobbiamo scendere"
Spalanco gli occhi e, afferrando subito lo zaino, scendo dall'autobus.
Ritorno alla normalità in un battito di ciglia.
Nessuno mi ha mai chiesto il permesso di farmi tornare nel mondo reale, eppure tutte le volte ritorno qui, coi piedi per terra.
E dentro di me, tutte le ansie che ero riuscita a scacciare tornano a galla.
Sono uscita troppo presto…
Fatemi tornare indietro.
Voglio tornare nel mio piccolo mondo.
Credere di non avere via di uscita
Quando ormai non hai più una spalla amica
E piangere sul cuscino del tuo letto
Senza mostrare mai il tuo cuore
A causa di tutte le insicurezze che ti porti a braccetto
Hai bisogno di uscire da questa stanza
Di vedere davvero nella vita, cosa è sostanza
Credere nell’amore, viaggiare, scoprire, baciare, amare…
Adesso però dicono che non sei in grado
Hai qualcosa che non va? Chissà.
Torna ad abbracciare il tuo cuscino
L’unico che per adesso, ti sta vicino…
Stai tranquilla compagna non sei da sola
Per te ci sarà sempre qualche parola
Mia madre è sul marciapiede con mio fratello minore. Si trova alla fermata del bus, sta salendo sul 34, l'unico che a quell'ora li avrebbe portati a casa. Quelli riservati a noi avevano smesso di passare da un pezzo. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla gracile donna della mia infanzia. Il volto è teso, rigidamente rivolto verso il basso, come se avesse il timore ad alzarlo. Contrasta la figuretta di mio fratello quattrenne, con in testa un cappellino vecchio, toppato qua e là, e un cappottino al quale non era rimasto che l'anima. È attivo e trotterellante. Ha il braccio teso e le dita della mano intracciate a quelle di mia madre, un passo dietro a lei, come in un posto in cui sembra andare malvolentieri. Chissà se quei momenti rivivono nella mente di mio fratello o sono passati come un sogno nella notte, come anche la nuvola più nera della tempesta. Mia madre non li ha mai dimenticati. Anni passati a lottare per diritti di cui non ha mai goduto, a combattere per un’ideale di uguaglianza. Anni di discriminazioni, di offese, di sguardi scrutatori e disgustati come quelli delle persone su quel bus. Facevano male, coltellate nello stomaco, mai completamente risarcite. Anche a me non è sfuggito niente, ricordo tutto. Ricordo le notti trascorse a piangere, a rigirarmi nel letto, animate da incubi che sembravano reali. Ricordo la tensione, la paura che si respirava in casa, pesante, tanto afosa da levarti il respiro. Arrivai a pensare di essere davvero diverso, di essere davvero sbagliato, a pensare di meritare tutto quel male. Non so dove fossi, al tempo della foto, forse nell’orto sul retro, forse affacciato alla finestra di camera ad aspettare il loro ritorno. Mio padre non era mai a casa, lasciava il tetto che era ancora buio e tornava che il cielo era scuro da un po’. Giornate intere passate in un campo, sotto il sole cocente dell'estate e la pioggia pungente dell'inverno, sfruttato e sottopagato. Lo faceva per darmi, per darci, un futuro. Rientrava piegato dalla fatica, tentava di non darlo a vedere, ma gli occhi dicevano quello che la bocca nascondeva. L'apartheid ci ha torturati, ci ha segnato, ma siamo riusciti ad uscirne, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico o epico, ma aspramente prosaico, questa foto con mio fratello che mi sembra addolcire il volto buio dei passeggeri e le inflessibili labbra di mia madre, mentre un fotografo ambulante, inquadrava nel pacifico occhio della sua macchina, un autentico documento dell’apartheid.
Sono già a letto. Sono sfinita.
Ma ho tanta voglia di ridere. Come ho tanta voglia
di coccole. Come oggi pomeriggio avevo tanta
voglia di piangere. Insomma, tempo marzolino.
Ho una sigaretta in mano. Di quelle che
fumavi tu quando sei partito.
E avrei ricevuto volentieri e riceverei ora volentieri
un “ciao sono Marino” dalla tua voce.
..….
Ci sono una serie di tramonti dolcissimi
in questi giorni
…….
Mi porto dietro un libro e fogli. Mi siedo su un muretto tra gli ulivi da dove si vede tutta Firenze e medito.
…….
Stasera era molto bello. Bello anche perché ho sentito davvero crescere questa serenità (pure così piena di bene-male chiaro-scuro)
e gli odori erano intensi e talmente curiosi del mondo che avresti pensato di scorgere qualcuno sbucare da qualche angolo.
Forse avremmo passeggiato bene
insieme stasera.
E il silenzio sarebbe stato la nostra
compagnia.
Un sasso immobile
che si lascia sfiorare con un sospiro
dalla luce più rosa.
……
È molto: da questo ricordare che mi viene la voglia di fare qualcosa. Ottimismo.
Questi giorni credo che mi siano serviti molto.
Credo di avere tante cose nuove. E di avere tante cose in più di quello fatto insieme.
Ricordo una cena in Via Volti con M. che mi tenorizzava con le operette Morali. E io avevo un crocifisso. Ricordo un pranzo da Mario con tanto male di stomaco di Marino e si cantava Bianco Natale. Ricordo una sera a studiare vicini prima di una mattinata impegnata. Ricordo un thè (una mattina) fuso a letto. E Montale prima di dormire. Ricordarmi il mio imbarazzo per una camicia azzurra. Ricordo delle mattine troppo precipitose.
Ricordo telefonate tardi col mio batticuore e la tua voce educata.
Ricordo la sofferenza di stare vicini e credere di non poterci aiutare (e sarebbe bastato guardarsi negli occhi un po' sai?).
Le nostre favole. (tante) mie. (poche ma tante) le tue.
Ho addirittura comprato la R6. Tanto ho Marino vicino.
E (se avevo tempo) ho sognato di stare nella tua stanza e di toccare le tue cose e di sedermi ad ascoltare e leggere nella luce che è tua.
Elisabetta, tu con queste tue lettere così genuine e con le note dei tuoi diari di cui ho qui trascritto le mie preferite.
Non solo mi hai incuriosito inizialmente, mi ci sono proprio ritrovata nelle tue parole. Nei tuoi sbalzi d'umore scostanti, nei tuoi continui estemporanei innamoramenti. E guardare il mondo dal tuo punto di vista così assurdamente poetico struggente, mi ha cambiato. Mi ha stupito, perché siamo tanto lontane, io e te, Elisabetta, nello spazio e nel tempo. Eppure, tu non lo sai, ma io ti ho conosciuta. L'ho fatto involontariamente, sono caduta nel tuo mondo, Elisabetta, mi hai risucchiato. Però è successo senza il tuo permesso, con te all'oscuro di tutto mentre io alla luce del sole ti leggevo. Non te lo sto neanche a dire come ti ho scoperta.
Mi dispiace, probabilmente non saresti molto contenta. Però mi piacerebbe conoscerti dal vivo, o averti conosciuta, non so.
Non penso di essere neanche l'unica. Tutti quelli che hanno letto e si sono ritrovati nelle tue parole, scambierebbero piacevolmente due parole con te.
Per esempio, Elisabetta, mi piacerebbe sapere se alla fine sei diventata una scrittrice e spererei di sentirti rispondere sì.
Perché loro non sanno, no quel racconto non l'ho voluto trascrivere qua, quello di Teseo...ricordi? A parte io e te, chi altro lo conosce? Probabilmente nessuno, vero? Peccato, sai. É stupendo, davvero.
Intanto ci hai regalato questi sfolgoranti estratti.
Tuttavia, per me non finisce qui.
Arrivederci, Elisabetta.