In un impegno definito costante ed incessante, tipico della condizione studentesca di oggigiorno, che pare gravare e ridurre al minimo il tempo da dedicare alle attività attraverso le quali ci si sente di poter rinascere, mi domando se non manchi una ragione. Una ragione che sia una, valida e giustificabile, che ci spinge a lavorare duramente per “rispettare la consegna”. Cosa è ad oggi l’impegno? O per lo meno che mi venga spiegato a cosa è volto. Perché l’onere più gravoso per colui che segue un percorso scolastico viene identificato col “compito?” Perché quest’ultimo appare come un carico da trasportare e non un mezzo per arrivare? Quando poso il mio quaderno sulla scrivania e faccio per appuntare il lapis, il desiderio di piegare la pagina e scriverci una dedica smielata da consegnare a qualcuno per sfogare i miei sentimenti mi rapisce e di conseguenza sfrutto l’intero pomeriggio a svolgere l’assegnazione, consapevole, però, di star sottraendo del tempo alle mie passioni. Tutto questo frena molto i miei stimoli. Il livello di curiosità si abbassa e tutta la buona intenzione di aggiungere fibra al maglione che crescendo mi sto piano piano cucendo addosso si traduce in un punto croce venuto male. E lo spiraglio rimane lì, in guardia dall’arrivo di venti gelidi, ma comunque troppo poco resistente per far fronte a certi inverni. Così, ad esempio leggo Marino e approfondisco un po’ Galilei, arrivando ad osservare il metodo d’analisi di quest’ultimo applicato al suo “Osservare per capire”. Osservo la pagina e capisco. O almeno credo di averlo fatto.