Quando sentite parlare di amicizia di solito cosa pensate? Probabilmente a un gruppo di persone che fanno cose meravigliose insieme, escono la domenica per fare delle passeggiate, saranno amici e staranno uniti fino alla fine, non si farebbero mai del “male.
Ad un invito come: “Hey, sabato ho trovato un posto bellino, andiamo a prendere un cocktail là?” l’altro risponde “Ok, va bene”.
Ma cosa succede quando non si riescono a fare cose come queste?
Quando non trovi il coraggio di fare cose come queste, perché entri nel panico?
Le amicizie cambiano.
O meglio, il tipo di amicizie cambia.
Ci sono amicizie come quelle che ho descritto, ma ce ne sono di altri tipi e credo che il mio gruppo di amici ne sia la prova vivente.
Il mio gruppo di amici… come spiegarlo?
Siamo praticamente un branco di adolescenti introversi che si prendono in giro a vicenda.
Fra noi facciamo tanto i fighi, ma ognuno di noi ha ansia anche solo per avvicinarsi alla cassa a pagare una bottiglia di coca cola.
Non abitiamo molto vicini, quindi non possiamo andare a fare passeggiate insieme, ma poco importa… visto che passiamo il tempo a prenderci in giro o ridere di roba che si trova su Internet.
Cerchiamo di fare ironia (a volte anche abbastanza pesante) su molte cose, forse per riuscire a far fronte ai problemi che abbiamo nella nostra testa, in famiglia o nel mondo.
Non so come descrivere questo tipo di amicizia.
Diciamo che se qualcuno chiedesse a noi “Daresti un pugno a un tuo amico per 1000 euro?”, qualcuno risponderebbe “anche due”, ma alla fine anche dopo il pugno rimarremmo comunque amici.
Ci si aspetterebbe che qualcuno dicesse “Ma no, è mio amico gli voglio bene, non gli farei mai del male”, ma anche se ci prendiamo in giro e anche se le nostre conversazioni sembrano un manicomio, ci vogliamo bene comunque.
Sembriamo dei pazzi (questo è quello che dice mia madre), ma sono fiera di me stessa perché sono riuscita ad avere degli amici anche se le persone in genere mi intimoriscono.
Occhi chiusi. Buio.
Occhi aperti. Ancora buio.
Tasto in giro alla ricerca di un interruttore.
Le mani sul pavimento freddo, ma non riesco a trovare niente. Una torcia, un accendino, lo schermo del telefono… ogni cosa va bene, mi basta faccia un po' di luce.
Non mi piace questo buio, mi opprime. Eppure, non c'è niente di niente.
Qualcuno può accendere la luce?
Cammino in giro, con calma, facendo attenzione a dove metto i piedi.
La stanza sembra grande, sì, sembra molto spaziosa, ma questo buio… Mi sento in una bolla. Chiusa dentro, senza via d'uscita.
Quanto ancora dovrò camminare nell'oscurità?
Quanto ci vorrà prima che qualcuno si accorga della mia assenza?
Qualcuno lo farà? Noteranno che non ci sono?
"Sono qui…" "Mi sentite?" Le sentite le mie urla?
No, ne dubito. Mi accascio al suolo con le gambe doloranti,
arresa a rimanere per sempre qui dentro.
Forse se urlassi un'ultima volta, magari questa è la volta buona e qualcuno mi sente.
"Sono qui…
accanto a te, seduta sul letto, ma tu non mi senti urlare."
L’inimmaginabile. L’inimmaginabile è solo una parola su uno schermo, un significato nascosto. L’inimmaginabile sono brividi freddi sulla spina dorsale, una voce che racconta anni di dolore, la mia mente che tenta di figurarseli. Inutilmente. Ci sono cose cui la nostra fantasia non arriva, l’empatia non funziona; quando non puoi immaginare, è in quel momento che le cose diventano orribili. Allora ti limiti ad ascoltare, e senti. È un ragazzo che parla, poco più grande di te, potrebbe essere chiunque, uno come tanti. Lo osservi, sembra un po’ timido. E come me, non ti aspetteresti mai la storia che sei in procinto di ascoltare. “Il mio nome è Bakary, Bakary Jobe” ci dice, “sono del Gambia, è qui, al confine con il Senegal” e con un pennarello ci indica il punto sulla cartina. Ed ecco che arriva il primo “termine”, il primo inimmaginabile: “in Gambia ci sono tre classi sociali: la famiglia reale, gli uomini liberi e gli schiavi. Io sono nato “schiavo”. Se guardate, ecco qui, sul braccio, c’è la cicatrice del segno che mi hanno fatto da piccolo. Con il fuoco mi hanno marchiato; con questo marchio mi avrebbero sempre riconosciuto.” Schiavitù. Questo ragazzo di fronte a me ha 23 anni e mi parla di schiavitù. Io non comprendo, all’inizio non capisco, come sia possibile che quella stessa schiavitù appartenente a secoli fa, quella che studiamo sui libri di scuola, esiste ora, davanti a me in carne ed ossa, ed è più reale che mai. Va avanti. Aggiunge che, a causa di quello status sociale “… mio padre quando avevo 5 anni, se ne andò. Un asino a fine anno non era abbastanza per mantenere tutti e tre, allora partì per cercare lavoro altrove. La mia unica comunicazione con lui si riduceva alle buste di soldi che spediva. Eravamo rimasti in due, io e mia mamma. Lei lavorava la terra, cercava di vendere i suoi prodotti al mercato. Ma chi vorrebbe mai comprare da una schiava? Alla fine, li tenevamo per noi. Un giorno successe che un serpente la morse, mentre lei era nei campi. Andammo subito all’ospedale, ma il veleno non aspettò le 15 ore di attesa che da schiavi ci spettavano. Troppe. Rimasi uno, solo.” Di nuovo quella sensazione di gelo al cuore, intorno a me, non udivo un respiro, nessuno osava muoversi. Si ferma per poco, poi riprende. “Avevo 13 anni quando lei se ne andò; quindi, mi incamminai verso l’unico posto sicuro che conoscevo, verso mio padre. Viaggiai per due anni, attraverso deserti, città in guerra, a piedi, in un minuscolo camion con altre 35 persone, uno sopra l’altro. Quando arrivai da mio padre non avevo più niente. Mi avevano derubato di tutto, il resto l’avevo bruciato per tenermi al caldo nelle gelide notti del deserto.” Il “resto” di cui sta parlando erano le poche pagine che aveva scritto negli anni, la sua unica passione… scrivere. Pensandoci ora, a mente fredda, non riesco a immaginarmi in grado di ridurre in cenere quella che è anche la mia passione; tuttavia, non riesco ad immaginare neanche di potermi trovare in una situazione similare. “Poco dopo essere riuscito a ricongiungermi con mio padre, lui morì. Successe che il suo capo non voleva alzargli lo stipendio e siccome lui si era licenziato il capo ritenne che la lezione migliore per me fosse imparare cosa accade quando non si seguono gli ordini. Lo uccisero.” Nella mia mente l’immagine dei miei genitori e di me con loro… non riuscivo ad immaginare. Solo un rumore sordo e un battito del cuore lento. “Infine, io ce la feci a scappare. Mi imbarcai e nel 2015 arrivai in Italia, io e le persone rimaste vive. Molti di quelli che erano partiti insieme a noi non ce l’avevano fatta. L’acqua aveva vinto la battaglia. Di quell’ultimo, estenuante, sforzo, ricordo solo le grida dei miei compagni. E se chiudo gli occhi, oggi ancora li sento, implorare aiuto. Mi perseguitano i loro gemiti, le loro richieste… ci chiedevano di chiamare, arresi ormai alla morte, al telefono i loro cari. Prima di partire li avevamo scritti sui pantaloni i nostri numeri telefonici, per dare a parenti o amici la triste notizia. Io ce la feci, loro no. Ma le probabilità sono così poche che, tornando indietro, non lo rifarei. Troppo rischioso! Mi basta riviverlo nella mia mente.” Ecco cos’è l’inimmaginabile, storie come queste. A migliaia. Purtroppo, non è necessaria la fantasia quando è la realtà a parlare. Non ho bisogno delle immagini artificiose della tv, quando ho un ragazzo che qui di fronte a me, mi racconta l’inimmaginabile: la verità. Grazie Bakary.
Credi di conoscerti, di conoscermi. Non so neanche io chi sono
O forse sì, la società me lo richiede: “Devi essere centrata su te stessa, devi sapere chi sei.”
Ma che palle, quanta ipocrisia!
Ho 18 anni, oggi mi piace la pizza, domani non lo so.
Mi vedo donna in carriera, mi vedo mamma.
Ma mi vedo anche da sola su un’isola deserta, oppure tutte le sere seduta in piazza Duomo a fare l’aperitivo.
Non sono indecisa, sono libera.
Forse sono anche indecisa e penso sia legittimo alla mia età, ma sono libera.
Non voglio più sentirmi dire che sono grande e quindi non posso esitare: “c’è il tuo futuro in ballo!”
Voglio vivere, sperimentare, provare la pizza con l’ananas e dire che non mi piace, visitare Bali e magari rimanerci per tutta la vita, vivere con un gatto e combattere la paura.
Qualunque cosa voglia fare, sono libera.
Vorrei che tu fossi con me, felice di ciò che voglio fare.
Non sprecare la voce per dirmi che non sono decisa.
So chi sono, sono tante cose.
Tu sai chi sei?
La faccia cambia aspetto, le guance si arrossiscono, il mento si infossa, le labbra si incurvano. Sulla fronte si formano delle rughe e dagli occhi escono le lacrime. Questo è il nostro volto quando piangiamo, ma dentro… dentro è difficile descrivere quello che accade.
Pensi di essere stupido in quel momento, mentre piangi, ti vergogni e vorresti coprirti il volto. Soprattutto per noi maschi; a noi il piangere non è concesso né compreso allo stesso modo che per il genere femminile.
Ma piangere è naturale, fa parte di noi… è l’espressione di un animo sensibile, empatico. Piangere è liberazione dallo stress accumulato, piangere è il ricordo dei momenti pazzi, strani, belli che hai trascorso con una persona alla quale sei molto affezionato, ma che devi salutare.
Per non parlare delle lacrime di gioia… quelle di una madre che vede suo figlio per la prima volta, quelle che ti sgorgano naturalmente quando raggiungi un obbiettivo stravoluto e strasudato… ah quelle sono le più belle, ma le più rare!
Piangere non è segno di debolezza.
Piangere è vita. E chi non ha mai compreso il significato profondo di quel sapore salato non ha mai avuto un incontro sincero con la vita.